venerdì 31 agosto 2012

Intervista a Gennaro De Crescenzo





INTERVISTA 

A GENNARO DE CRESCENZO



Spesso dalle interviste emergono particolari e sfumature altrimenti trascurati dagli “addetti ai lavori” perché dati per scontati. Invece molti nuovi amici del Movimento hanno necessità di conoscere ogni elemento che contraddistingue da 20 anni questa magnifica comunità fatta di Ideali, umanità ed identità.




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da Primapaginaitaliana.it  del 26 agosto 2012



Intervista esclusiva a Gennaro De Crescenzo, 
presidente del Movimento Neoborbonico

di
Nando Cimino




Riprende oggi la nostra rubrica con un ospite di grande importanza non solo per la sua opera di scrittore ma, soprattutto per la sua continua e costante battaglia sulla verità storica del nostro Risorgimento. E’ ormai inconfutabile il dato che, più che di unificazione d’Italia, si è trattato di una guerra di conquista di un Regno, quello delle Due Sicilie che, rispetto la restante parte della penisola italica, vantava una netta superiorità in ogni ambito del vivere civile, dell’impresa, dell’industria, della cultura, dell’arte e del vivere sociale. ‘Come siamo caduti in basso!’ molti così esclamano senza spiegarsi il perché, guardando alla martoriata Terra del Sud. La nostra indagine giornalistica è volta a dare una risposta anche a questo interrogativo. 

L’intervista a Gennaro De Crescenzo (nella foto*), scrittore, storico e Presidente del Movimento Neoborbonico, da sempre impegnato in prima linea nell’aspra battaglia contro la menzogna storica, ci introdurrà nel mondo dei ‘neoborbonici’.



Come nasce il Movimento Neoborbonico?

Il Movimento Neoborbonico nacque nel lontano 1993 quando, dopo gli studi effettuati soprattutto presso l’Archivio di Stato di Napoli, mi resi conto che bisognava iniziare a divulgare molte verità nascoste a proposito delle condizioni del Regno delle Due Sicilie e del processo di unificazione: iniziai a raccogliere i nomi di quelli che scrivevano lettere “borboniche” ai quotidiani sotto gli uffici telefonici della stazione (all’epoca internet sembrava fantascienza) e a chiamarli: tra gli altri rintracciai lo scrittore Riccardo Pazzaglia dopo aver visto una sua commedia ricca di verità storiche (“Ritornati dal passato”, con il titolo del bellissimo inno che avrebbe composto sulle note di Paisiello) e Riccardo mi “regalò” un articolo di domenica nella sua rubrica sul ‘il Mattino’ fornendo i miei recapiti a chi fosse interessato a controcelebrare, il 7 settembre; l’arrivo di Garibaldi a Napoli in una serata in nostra compagnia al Borgo Marinaro. Da quella domenica, quasi all’alba, a oggi, il mio telefono non ha mai smesso di suonare: dovevano essere in 70 e si presentarono in 400 tra bandiere borboniche riapparse dopo un secolo e mezzo, tv e quotidiani nazionali, compresa la BBC. Nacque così l’idea di un movimento culturale, il Movimento Neoborbonico con statuto e sede e alcuni obiettivi forti e chiari: ricostruire la storia di Napoli e del Sud, ricostruire radici, identità e l’orgoglio di essere meridionali.



Si è mai veramente interrotta la 'fede borbonica'?

La ‘fede borbonica’, probabilmente, non si era mai interrotta. Con l’eccezione di qualche pubblicazione e di qualche piccolo gruppo già esistente o di qualche singolo eroe (come non ricordare, tra gli altri, il grande compianto Angelo Manna, del quale mi vanto di essere stato amico vero e discepolo), non c’era mai stato un vero movimento in grado di divulgare certe storie, di farle radicare e diffondere, dalle curve degli stadi alle scuole: il nostro merito principale è stato quello di aver risvegliato una sensibilità, riscoperto una simbologia e un senso di appartenenza che, per decenni, erano stati dimenticati, ignorati o criminalizzati. In molti, nei primi anni di battaglie, ci chiedevano che cosa fossero quelle bandiere o chi fossero i Borbone: oggi quello stemma è diventato, non a caso e non da solo, il simbolo dell’orgoglio sulle sciarpe dei tifosi e, intorno ai Borbone e alla loro storia, sono nati decine di gruppi reali e virtuali, decine di pubblicazioni anche di grande successo (‘Terroni’ del grande amico Pino Aprile in testa) e cresce la voglia di sapere e di fare. Restiamo il gruppo più antico, attivo e diffuso del mondo meridionalista/sudista/borbonico/neoborbonico ma senza rivendicare mai ‘primogeniture’ e sempre rispettosi verso chi ci rispetta e chi si batte, magari da trincee diverse, ma contro gli stessi nemici e, come dimostrano le ultime iniziative, con l’entusiasmo di lavorare insieme a chi condivide con concretezza, serietà e coerenza e di certo non solo su facebook, i nostri ideali. Le battaglie insieme agli amici dei ‘Comitati delle Due Sicilie’, del gruppo di ‘Daunia Due Sicilie’, dell’Editoriale ‘Il Giglio’, della rivista ‘Il Brigante’, di ‘Insorgenza Civile’ o del movimento ‘Vanto’, sono la dimostrazione di quello che diciamo e della nostra capacità e volontà di collaborare. Del resto siamo convinti che unire le debolezze non serva; non possiamo disilludere o confondere la nostra gente durante un periodo così importante come questo. Non abbiamo mai realizzato così tante attività come negli ultimi anni e non abbiamo mai registrato, in 19 anni, tanti consensi e tanti successi. E’ un momento di crescita e di selezione importante e delicato. Ci tocca, però, continuare a lavorare anche grazie ai ‘compatrioti’, numerosi e compatti, vecchi e nuovi, del nostro Direttivo. Ci tocca continuare a macinare chilometri e parole in giro per l’Italia come abbiamo sempre fatto con sacrifici economici e fisici, piuttosto che perderci in manifestazioni sterilmente nostalgiche, magari con 5 partecipanti; amici e mogli eventuali comprese. Nelle polemiche internettiane o sulle dispute retoriche e teoriche sulla secessione o meno, sull’ indipendenza o meno, su monarchie o repubbliche, pur essendo tutti argomenti interessanti, non esattamente all’ordine del giorno, anche se ci rendiamo conto che è più facile aprire dibatti da casa propria piuttosto che caricarsi una macchina di pannelli di mostre sotto il sole.



Quali progetti per il futuro?

I progetti per il futuro sono sempre legati alla necessaria opera di divulgazione e sensibilizzazione; l’obiettivo è quello di formare classi dirigenti meridionali realmente e concretamente consapevoli, fiere e radicate e in grado di rappresentare il Sud di domani. Siamo convinti che la sfida vera sia proprio questa: politici radicati e politici sradicati, altro che destre o sinistre che da 151 anni ci hanno dimostrato la loro totale incapacità di governare la nostra gente. Un conto sono le urgenze e le necessità politiche che conosciamo bene anche noi, un altro le reali possibilità che abbiamo di fare fronte a quelle urgenze con partiti e partitini del Sud destinati, come ci dimostrano puntualmente le elezioni locali e nazionali, senza una reale e diffusa consapevolezza, a contare le famose ‘zero preferenze’ (è capitato) e i famosi ‘zero virgola’ a meno che non parliamo di finti partiti e partitini del Sud appiattiti a destra o a sinistra. Domanda delle domande che spesso siamo costretti a riformulare: se ci fosse anche una sola possibilità su mille di essere eletti in un parlamento italiano o europeo e di andare a gridare le nostre verità in quei consessi, pensate che non saremmo i primi a coglierla?



Cos’è il Parlamento delle Due Sicilie?

Diverso il discorso su eventuali provocazioni culturali e politiche. In questo senso, fin dal 2009, abbiamo promosso la nascita “Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud” (www.parlamentoduesicilie.it): un gruppo di azione civico-culturale, un osservatorio delle politiche per il Sud, un laboratorio di idee e progetti che si è riunito per la prima volta nel Maschio Angioino e in seguito nei luoghi simbolo di Palermo e Gaeta nel quale, oltre 150 meridionali di tutte le antiche province del Regno e degli ‘esteri’ sono chiamati ad una vera e propria palestra-sfida da classe dirigente. Del consesso fanno parte molti degli amici di altri gruppi citati prima riuniti anche in ministeri o commissioni di lavoro; ‘Istruzione e Cultura’, ‘Ministero per la par condicio Nord-Sud, ‘Ministero per la difesa di Napoli e del Sud’, ‘Ambiente’ ecc. Di qui, perché no, anche la provocazione di un futuro eventuale sindaco neoborbonico nell’accezione che ormai del termine si è diffusa; nel senso di un sindaco che conosce e ama le sue radici, che faccia dell’orgoglio di essere napoletano e meridionale una bandiera quotidiana e concreta.



Qualche polemica messa in campo contro i borbonici dai redivivi 'Giacobini'; cosa ne pensa?

A proposito di ‘radici’, è d’obbligo un chiarimento culturale: da decenni la cultura ufficiale è monopolizzata da una cultura giacobina e antiborbonica: è divertente, a volte, notare come molti ‘neogiacobini’ si lamentino del fatto che non abbiamo classi dirigenti adeguate. Dopo oltre un secolo e mezzo di retorica unitarista o giacobina totalmente unilaterale, di università, di borse di studio, di documentari e film, strade e scuole intitolate a questo o a quell’eroe, chi doveva formarle quelle classi dirigenti? E chi le ha formate così male? I ‘nemici’ veri, allora, sono più dalle nostre parti che di quelle della inesistente ‘padania’. Sono gli eredi di quelli che fecero massacrare il popolo nel 1799 e nel 1860, rinnegati e svenduti ai padroni francesi o piemontesi di allora, chiusi nei loro palazzi o nelle loro ville di Posillipo e hanno fatto e fanno più danni di Bossi e compagni, nemici anche loro ma almeno plateali, resi ancor più visibili da quelle orrende cravatte verdi. Ecco perché il lavoro fatto è importante ma dobbiamo continuare a lavorare. Ecco perché, e lo hanno capito anche i nostri avversari con le loro reazioni frequenti e scomposte nei dibattiti o sui loro media, è ancora importante svolgere il ruolo di dispensatori di storie e di orgoglio. Ecco perché ci servono e ci serviranno ancora i ‘raccontatori’ dei nostri ‘Briganti’ e dei nostri primati.

Ecco perché abbiamo ancora bisogno di compagni di battaglie e vi invitiamo a unirvi a noi per il prossimo importante anno già stracarico di impegni anche attraverso il nostro sito (www.neoborbonici.it, info@neoborbonici.it), il nostro gruppo facebook (Movimento Neoborbonico - Gruppo Ufficiale), il sito del “parlamento” (www.parlamentoduesicilie.it), la nostra puntuale rete di informazione che conta oltre 15.000 iscritti (www.reteduesicilie.it, info@reteduesicilie.it)".



* nella foto: Gennaro De Crescenzo in compagnia di Carlo di Borbone e la moglie







giovedì 30 agosto 2012

Scossa di terremoto in Calabria







SOLO SPAVENTO ED ALLARME IN CALABRIA E SICILIA 


Una scossa di terremoto di magnitudo pari a 4.6 è stata avvertita il 29 agosto, alle 1.12 di notte, tra le coste della Calabria e quelle della Sicilia, meglio localizzata nello stretto di Messina. 

L'evento è stato avvertito dagli abitanti della costa calabrese e da quelli della costa siciliana residenti nei comuni di Fiumara, Scilla, Sant’Alessio in Aspromonte, Calanna e Laganadi arrivando a farsi sentire anche in alcuni tratti dei territori di Catania e di Cosenza. 
L’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha, quindi, comunicato che l’epicentro è stato localizzato in mare ad una profondità di circa 46 chilometri e che, pertanto, gli effetti sismici sono stati notevolmente attutiti.
A parte il comprensibile spavento tra la popolazione, non si lamentano danni alle abitazioni ed alle infrastrutture.
Sempre l'INGV ha fatto notare che nella zona interessata dal recente evento avvertito dagli abitanti, nei soli primi 15 giorni del mese di agosto sono stati registrati ben 549 terremoti strumentali, pari a 35 al giorno.




martedì 28 agosto 2012

Novità Editoriale - Mimmo Cavallo




Mimmo Cavallo 
Siamo Meridionali!
Antonio G. D’Erricodi 
La Feltrinelli Amazon  Webster 

di 
Mario Bonanno 



“Siamo meridionali” deflagra nelle radio a inizio anni Ottanta, con (buona) parte dell’Italia già tentata da surrogati di edonismo reaganiano e la disco dance che obnubila le coscienze stremate dall’impegno del decennio precedente. Anche se per le strade c’è ancora chi spara, la leggerezza dell’essere comincia a delinearsi come sostenibile: il nuovo diktat sul quale tarare mode e coscienze. "Siamo meridionali" è il cavallo di Troia (rock-blues accattivante + taglio ironico + denuncia sociale) con cui Mimmo Cavallo scardina le difese di una discografia già in vena di torpore, proponendosi come una delle personalità più espressive e meno contaminate del periodo. Durerà poco - quanto meno in accezione mainstream -: il tempo di demistificare, in ulteriori due album ("Uh mammà” e “Stancami, stancami musica”) vecchi e nuovi mostri, miti e riti di passaggio, bandiere, razzismi, ideologie, della contemporaneità. A seguire, anni di underground, zone grigie (private e professionali), altri dischi circolati poco e male, qualche pezzo, invece, piazzato ottimamente (vedi il recente "Vedo nero", interpretato da Zucchero), e così sia; all’insegna degli alti e dei bassi, soprattutto dello sperpero di talento, perché è così che si usa al tempo del disco-saponetta e del nulla che avanza (persino in canzone).

Per entrare nel merito, comincio subito con un "bravo" a Antonio G. D’Errico, autore per Bastogi di questo "Mimmo Cavallo. Siamo Meridionali", articolato confronto con il Nostro, a metà strada tra biografia e giornalismo musicale, storie di note e altre di vita. Alla luce dei vent’anni e ormai diversi spiccioli passati a perorare la causa (persa?) della canzone d’autore, lasciatemelo dire: in prospettiva filologico-bibliografica vale di più un solo libro (soprattutto se ben scritto) su Mimmo Cavallo che cento (simili tra loro) su Fabrizio De Andrè. Inoltre tenete conto che “Siamo meridionali” racconta del pendolarismo artistico-esistenziale di Cavallo (Roma, Torino, ritorno alle origini pugliesi, quindi di nuovo Roma e Milano) senza tacere di molto altro: dai contesti social-musicali degli ultimi trent’anni alla “rilettura” - sui generis (?) - dell’Unità d’Italia; dagli incontri ravvicinati con Fiorella Mannoia, Mia Martini, Loredana Bertè, Renato Zero, Rino Gaetano (per citarne alcuni), a quello con Pino Aprile (autore del vendutissimo “Terroni”, che firma anche la prefazione a questo volume). Dagli ambienti discografici di Messaggerie Musicali e Cgd di Sugar & Caterina Caselli, ai luoghi dello spirito dell’artista da giovane. Poi c’è poco da fare, l’imprinting meridionale Cavallo se lo porta appresso come una bandiera, a viso aperto, con tutti i “rischi” ma anche i pretesti creativi che ciò comporta. Nelle sue origini pugliesi vanno forse rintracciati meriti e contraddizioni di un cantautore comunque a denominazione di orgine controllata, la sua fierezza, il genio con poca sregolatezza che si piega ma non si spezza, sopporta i rovesci della sorte, ancora in pista - malgrado molto e molti - con uno spettacolo tratto proprio da “Terroni” e con un disco il cui titolo la dice lunga a sua volta. “Quando saremo fratelli uniti” (Edel) è il titolo del cd, rivelatore di quella insopprimibile vocazione al sarcasmo e alla denuncia civile che sanno essere balsamo per chi ancora chiede alla canzone parole e musica di lunga vita.

FONTE: sololibri.net





lunedì 27 agosto 2012

Evento a Biccari




                Presentazione del nuovo libro di Gennaro De Crescenzo "I peggiori 150 anni della nostra storia. L'unificazione come origine del sottosviluppo del Sud", Editore il Giglio.

Lunedì 27 settembre a Troja (Foggia), ore 20.30 cine-teatro, martedì 28 settembre, Biccari (Foggia), ore 20.30, a cura di Daunia Due Sicilie dell'Intendenza per le Puglie del Movimento Neoborbonico con il patrocinio del Comune di Troja e di Biccari. 
Un'occasione per la verità storica e per incontrare i responsabili pugliesi del Movimento e del "Parlamento delle Due Sicilie". 
Compatrioti, amici e simpatizzanti sono invitati.



domenica 26 agosto 2012

Restaurato il Teatro di corte a Napoli




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Il Teatrino di Corte a Palazzo Reale

di 
Maria Continisio 


Siamo al primo piano nobile del Palazzo Reale, al quale si accede attraverso lo splendido scalone in marmo definito da Montesquieu “il più bello d’Europa”, che si apre ad abbracciare, con una doppia rampa, il maestoso salone d’ingresso, affacciato verso il Cortile interno del Palazzo per mezzo di una grande vetrata. 

Il "Teatrino di Corte", attiguo all’appartamento reale, era la “Gran Sala delle Feste” o “Sala Regia” della reggia seicentesca, all’epoca usata (secondo l’occasione) per ricevimenti o per spettacoli destinati esclusivamente ai Reali ed al loro seguito. 

Due delle oltre cinquanta porte in legno che impreziosiscono le sale del palazzo, collegano il teatro alla sala successiva: le loro ricche decorazioni, con eleganti motivi vegetali ed animali, richiamano il gusto pompeiano imperante all’epoca, dopo le scoperte archeologiche delle città vesuviane sepolte dalla lava. 

Il Teatrino venne trasformato nella sua forma attuale nel 1768, in occasione delle nozze tra Ferdinando IV e Maria Carolina d’Asburgo e conserva ancora, lungo le pareti, le originarie strutture a lesene ideate da Fuga, con mensole e capitelli dorati che incorniciano - creando una grande balaustra - le pregiatissime dodici statue in cartapesta e gesso, opera dello scultore Angelo Viva: Apollo, Minerva, Mercurio e le nove muse (Tersicore, Erato, Polimnia, Urania, Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Calliope).

I Borbone di Napoli furono i primi sovrani, in Europa, a considerare i teatri come luoghi di rappresentanza e di diplomazia oltre che di cultura: vollero perciò realizzarli belli e sfarzosi quasi quanto i loro palazzi. 

Con il Teatrino di Corte, Ferdinando IV intese continuare l’opera di suo padre Carlo, che trent’anni prima, con la costruzione del “San Carlo”, aveva dotato la capitale, Napoli, del più bel teatro lirico del mondo. 

Storicamente destinato a rappresentazioni di opere buffe di autori come Paisiello e Cimarosa, il Teatrino subì notevoli danni nel corso dell’ultima guerra, quando una bomba lo sventrò, distruggendo la volta e tutte le sue decorazioni: venne allora murato e rinforzato con pareti di cemento armato, per essere poi utilizzato come luogo di svago per le truppe straniere. 

Solo nel 1950 furono avviati i lavori di recupero e la volta venne finalmente ridipinta, imitando gli affreschi originali di Antonio Dominici e Crescenzo La Gamba. 

Soltanto di recente, però - così com’è accaduto per il San Carlo - questo gioiello borbonico è tornato agli antichi splendori: le poltrone, il sipario, il parquet sono stati completamente rifatti, ed è nuovo il palcoscenico, che vanta una pregevole pedana girevole centrale, ripristinata dopo mezzo secolo. 

Finalmente, dopo due anni di lavori, il Teatrino - vera e propria "bomboniera" nel cuore della reggia cittadina, monumento nel monumento - ha pienamente recuperato l’armonia delle forme settecentesche ed è pronto per essere nuovamente utilizzato per opere e concerti, insieme al Massimo cittadino.



Fonte. napoli.com

sabato 25 agosto 2012

Francescoo I di Borbone a Montevergine - Evento




Francesco I di Borbone 
a Montevergine

domenica 26 agosto



Dopo “La festa del Principe" che ha visto sfilare per le strade di Mercogliano i raffiguranti Carlo III di Borbone con la sua corte, domenica 26 agosto si terrà l'evento “Un giorno nel Barocco”, corteo storico per la rievocazione della visita al Santuario di Montevergine del Re Francesco I di Borbone e della sua corte, avvenuta il 30 agosto 1826.
Il corteo sarà composto da cinquanta figuranti che rappresenteranno il Re, la Corte, i Nobili e gli altri personaggi al seguito di Francesco I di Borbone; partirà alle ore 18 da Piazza Municipio e sfilerà lungo le strade di Mercogliano fino all’Abbazia di Loreto, dove il Re Francesco I di Borbone, prima di recarsi a Montevergine, il 29 agosto del 1826, si fermò con la corte per rifocillarsi ed incontrare i nobili della zona. 
Il corteo quindi arriverà a Torelli alle ore 20 per il banchetto regale con degustazione di cibi tipici locali.
Il percorso del corteo storico sarà il seguente: 
Corso Garibaldi, Piazza Decorati al Valor Civile, Piazza Morelli e Silvati, Via Santo Stefano, Via Michele Santangelo, Viale San Modestino, Piazza San Modestino, Viale San Modestino, Via Ramiro Marcone, Viale Europa e Via Traversa, con arrivo a Torelli previsto alle ore 20.




Primo stop all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli: uno spreco di soldi pubblici.







STUDI FILOSOFICI
Richiesta di chiarimenti agli enti finanziatori 
da parte del nostro Parlamento delle Due Sicilie

L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli è stato da sempre il riferimento principale della cultura giacobina e risorgimentalista sistematicamente lontana dalle radici culturali borboniche, tradizionaliste e cattoliche di Napoli. 

Ogni anno, dal 1975, centinaia di seminari, dibattiti e pubblicazioni unilateralmente e monopolisticamente legate alla cultura “ufficiale” con decine di milioni di euro di finanziamento pubblico stanziati fino alle attuali questioni sollevate negli ultimi giorni. 
Senza entrare nel merito specifico delle attività e dei legami concreti e reali con il territorio e con tutta la sua storia e la sua cultura e senza entrare nel merito del successo delle stesse iniziative che hanno trovato più spesso riscontri all’estero piuttosto che nella nostra città, in un momento di crisi grave come quello che stiamo vivendo, sarebbe necessario un dibattito serio e approfondito sul ruolo di certe istituzioni e sulle loro responsabilità, sul fallimento e sui limiti di un certo tipo di cultura anche in merito all’attività di formazione che esse svolgono se è vero che, come universalmente riconosciuto, Napoli e il Sud non hanno, da decenni, ad esempio, classi dirigenti adeguate…  
Dopo le recenti vicende, però, che (come denunciato su diversi quotidiani locali e nazionali) hanno costretto il responsabile dell’Istituto (l’avv. Gerardo Marotta) a trasferire “circa 300.000 volumi” della sua biblioteca in un capannone di Casoria per mancanza di fondi, il “Parlamento delle Due Sicilie –  Parlamento del Sud – Commissione Cultura e Istruzione”,  ha inviato al predetto istituto e agli enti locali e nazionali che hanno finanziato e finanziano l’istituto per numerosi milioni di euro (Comune di Napoli, Provincia di Napoli, Regione Campania, Ministero Ricerca e Istruzione, Presidenza del Consiglio) richiesta di chiarimenti in merito ad una situazione finanziaria che, nonostante le erogazioni cospicue e quasi trentennali, risulta tutt’altro che positiva. 
Il “Parlamento delle Due Sicilie”, in sintesi, ha richiesto agli enti citati: 1) di rendere pubblico  il bilancio finanziario dell’Istituto anche in considerazione del grave momento di crisi economica che attraversano la nostra città, la nostra Regione e l’Italia; 2) di provvedere con esperti del settore all’accertamento della consistenza, dell’interesse e del valore dei volumi della citata biblioteca; 3) di accertare le motivazioni che hanno spinto (per quanti anni?) i responsabili dell’istituto a versare (come da loro dichiarazioni)  “un fitto annuale  di 200.000 euro per n. 14 appartamenti” nei quali erano conservati i suddetti volumi (Il Mattino, 23/8/12, p. 39).

venerdì 24 agosto 2012

Per ricordare l'imperatrice Zita d'Austria




120 anni dalla nascita 
dell’imperatrice Zita d’Austria

di 
Cristina Siccardi 

Quest’anno ricorrono 120 anni dalla nascita di Zita Borbone-Parma, imperatrice d’Austria e regina apostolica d’Ungheria. Nacque il 9 maggio 1892 a Villa delle Pianore (Lucca). Il padre era Roberto I, duca di Parma, Piacenza e Guastalla e sua madre Maria Antonia di Braganza, figlia di Michele, re del Portogallo. Era la diciassettesima figlia dei ventiquattro avuti dal duca: i primi dodici li ebbe dalla moglie Maria Pia delle Due Sicilie. 
Zita frequentò la scuola inglese a Ryde, sull’isola di Wight, e il collegio di suore di Zamberg, nella Baviera Superiore. Imparò l’italiano, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il portoghese, l’inglese. Giovane di fede e di carità, fu sensibile al servizio degli infelici, prendendosi cura dei bisognosi, visitando ammalati, anziani, poveri… pulendo le loro case e rammendando o confezionando i loro indumenti. Il 21 ottobre 1911 sposò Carlo d’Asburgo (1887-1922), beatificato il 3 ottobre 2004: il matrimonio fu benedetto da monsignor Camillo Bisleri, delegato di san Pio X. Entrambi possedevano un alto concetto dell’unione matrimoniale, unione che divenne strumento di perfezionamento reciproco.
Come prima tappa del loro viaggio di nozze scelsero il santuario di Mariazell, in Austria. In dieci anni di vita coniugale nacquero otto figli. Era il 28 giugno 1914 quando arrivò il telegramma che comunicava a Carlo e Zita la tragica notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sophie, primo atto della Grande guerra. Per una serie di circostanze luttuose in Casa d’Austria, fu Carlo IV, il 30 dicembre 1916, ad essere consacrato, con la corona di santo Stefano, re apostolico d’Ungheria. Il primo a godere di questo titolo fu proprio Stefano I, che lo ricevette intorno all’anno 1000 da papa Silvestro II: il Sommo Pontefice volle ricompensarlo con tale atto per la sua strenua attività di diffusore e difensore del Cristianesimo.
Priorità assoluta della coppia imperiale fu sempre Dio: preghiera e Santa Messa erano loro pratiche quotidiane. Spesso Zita, donna forte e determinata, accompagnava il marito nelle varie province dell’Impero e anche sul fronte di guerra per occuparsi personalmente dei feriti ricoverati negli ospedali militari. Con la fine della prima guerra mondiale il plurisecolare Impero asburgico crollò. Carlo e Zita furono costretti a prendere la via dell’esilio, in un primo momento trovarono asilo in Svizzera e poi, dopo due tentativi di restaurazione a Budapest, ripararono a Funchal sull’isola di Madeira.
Il 1° aprile 1922 morì l’imperatore, lasciando vedova Zita a 29 anni. La sua compostezza al funerale, dove presenziarono 30.000 persone, fu memorabile e portò il lutto fino alla fine dei suoi giorni, ovvero per 67 anni. Crebbe i figli fra molte difficoltà finanziarie e nel 1929 la famiglia si trasferì in Belgio, nel villaggio di Steenokkerzeel, vicino a Bruxelles, al fine di agevolare gli studi universitari dei ragazzi. L’obiettivo della sua vita fu quello di educarli, come usava dire, per «farne degli uomini buoni che temono Dio».
Assisteva, quotidianamente, alla Messa dell’alba, poi ancora a quella celebrata nella cappella di casa ed era legatissima al rito antico, per tale ragione cercava sacerdoti che la celebrassero. L’ex imperatrice non si dimenticò del suo popolo: percorse gli USA tenendo conferenze per raccogliere fondi e accantonando la sua naturale riservatezza per sostenere la causa austriaca presso Roosevelt e le mogli dei senatori.
Dopo molteplici trasferimenti, a 70 anni scelse di ritirarsi in Svizzera, in una casa di riposo, gestita da suore francescane, precisamente a Zizers nei Grigioni. Ha affermato il postulatore della Causa di beatificazione (apertasi il 10 dicembre 2009 nella diocesi di Le Mans), l’abbé Cyrille Debris: «Conduceva una vita di tipo monastico, molto semplicemente, dimenticandosi di essere stata un’imperatrice. Aveva scelto quella casa anche perché accoglieva molti preti e aveva così la possibilità di assistere fino a tre Messe mattutine. Passava poi molto tempo in preghiera. Per il resto, si faceva leggere le notizie d’attualità, visto che era divenuta quasi cieca».
Nel 1982 ebbe la gioia di rivedere l’Austria e fra le sue tappe non poté non inserire il grande santuario mariano di Mariazell. Morì il 14 marzo 1989 all’età di 97 anni e il 1° aprile ricevette solenni onoranze funebri a Vienna, dove fu sepolta nella cripta dei Cappuccini. 


FONTE: Corrispondenza Romana

giovedì 23 agosto 2012

Le albicocche vesuviane




Continua la battaglia 
per le albicocche vesuviane

Rosario Lopa: "L'albicocca vesuviana è un frutto legato alla storia di tutta la Campania".


Dobbiamo procedere alla verifica e capire se c'è la volontà di un nuovo posizionamento per la valorizzazione e promozione, attraverso il riconoscimento comunitario dell'Albicocca Vesuviana, si crei un tavolo di concertazione assieme alle istituzioni nazionali competenti, locali ed al comitato promotore per raggiungere gli obiettivi.
Cosi è intervenuto il Delegato del Presidente della Provincia di Napoli per il settore Agricoltura già Rappresentante della Consulta Nazionale dell'Agricoltura, Rosario Lopa, partecipando alla raccolta delle Albicocche sul Vesuvio. Non è il momento delle polemiche, ribadisce l'esponente dell'Agricoltura, ma non è nemmeno ammissibile, che non si adoperi per questo importante riconoscimento per un prodotto di eccellenza del Vesuvio, a fronte della quale saranno chiamati a pagare gli imprenditori ed i lavoratori del settore, i consumatori e forse il prestigio stesso dell'agroalimentare campano e della provincia di Napoli in particolare.
L'albicocca è il frutto che contiene le dosi più elevate in assoluto di potassio e carotene. Entrambi i nutrienti sono molto importanti d'estate: assumere buone quantità del primo è molto essenziale per ripristinare quello che si perde con la sudorazione, mentre il carotene è essenziale per favorire un'abbronzatura veloce e duratura. Inoltre l'albicocca è anche ricchissima di vitamina A, oltre alle vitamine B, C e PP e di vari oligoelementi (magnesio, fosforo, ferro, calcio) e questo ne fa un alimento irrinunciabile per chi è anemico, spossato, depresso, cronicamente stanco. Si raccomanda ai convalescenti, ai bambini nell'età della crescita e agli anziani, ma è sconsigliato a chi soffre di calcoli renali.
L'albicocca ha, inoltre, notevoli proprietà lassative, favorite dalla presenza del sorbitolo. E' un frutto ipocalorico, molto nutritivo e altamente digeribile, soprattutto se consumato ben maturo. Si presta anche alla cura dell'anemia e aiuta ad aumentare le reazioni naturali di difesa dell'organismo. Le albicocche possono essere consumate al naturale oppure essiccate o sciroppate e naturalmente in confettura.
Una delle prime testimonianze precise della presenza di albicocchi in Campania è dovuta a Gian Battista Della Porta, scienziato napoletano, che, nel 1583, nell'opera "Suae Villae Pomarium" distingue due tipi di albicocche: bericocche e crisomele, più pregiate. Da questo antico termine deriverebbe, quindi il napoletano "crisommole" ancora oggi usato per indicare le albicocche, e da cui sarebbero derivate, inoltre, le crisomele alessandrine, che ancora esistono nell'area vesuviana.
Nel secolo scorso il testo ad opera di autori vari, "Breve ragguaglio dell'Agricoltura e Pastorizia del Regno di Napoli", del 1845, riconosce l'albicocco come l'albero più diffuso, dopo il fico, nell'area del napoletano, e precisamente in quella vesuviana, "dove viene meglio che altrove e più maniere se ne contano, differenti nelle frutta ...". Evidentemente vi era già una discreta varietà di ecotipi che offrivano frutta diverse a seconda delle caratteristiche della varietà di appartenenza, di cui oggi si riconoscono oltre 40 nella sola area vesuviana.
Descrizione del prodotto. Con il termine "albicocca Vesuviana" si indica un insieme di oltre quaranta diversi biotipi tutti originari dello stesso luogo. I più diffusi sono: Ceccona, Palummella, S. Castrese, Vitillo, Fracasso, Pellecchiella, Boccuccia Liscia, Boccuccia Spinosa e Portici.
La coltivazione è attualmente estesa a tutto il territorio dell'area vesuviana, dove infatti è nota la particolare fertilità dei terreni, che, essendo di natura vulcanica, sono ricchi di minerali e in particolare di potassio, elemento noto per la sua influenza sulla qualità organolettica dei frutti e dei vegetali in genere, e che, in questo caso contribuisce a conferire alle albicocche un gradevole e caratteristico sapore.
Data la variabilità degli elementi che caratterizzano le numerose varietà, si potrebbe generalizzare la loro descrizione definendole comevarietà per la maggior parte a maturazione precoce e medio - precoce: si raccolgono verso metà giugno. Sono apprezzate sul mercato per le loro caratteristiche organolettiche, soprattutto per sapidità e dolcezza. Si distinguono dal punto di vista estetico per la presenza di un sovra colore rosso sfumato o punteggiato sulla base giallo- aranciata della buccia di una buona parte di esse.
Il territorio interessato alla produzione è compreso nei seguenti comuni della provincia di Napoli: Boscotreale, Boscotrecase, Cercola, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, Portici, S. Anastasia, S. giorgio a cremano, S. Sebastiano al Vesuvio, S. Giuseppe Vesuviano, Somma Vesuviana, Terzigno, Trecase, Torre Annunziata, Torre del Greco e Nola.
La Campania è la regione più importante, nella coltivazione di albicocche, con quasi 50.000 tonnellate di prodotto, proveniente per la maggior parte dall'area vesuviana, che rappresenta circa l'80% della produzione regionale. Nell'area dei comuni vesuviani attualmente vi sono circa 2000 ettari di albicoccheti, con una produzione che in condizioni climatiche normali si dovrebbe attestare sui 400.000 quintali. La maggior parte è destinata al consumo fresco.
Una quota variabile di anno in anno viene trasformata in nettari, ossia in succo e polpa, mentre una piccola parte viene trasformata in confetture, essiccati e canditi, e in ultimo una quota molto limitata è trasformata in prodotti surgelati e sciroppati.
Appena le condizioni istituzionali c'è lo consentiranno, ha concluso Lopa, avvieremo come Provincia un primo momento di concertazione con la categoria dei produttori.

FONTE: Vini e Sapori








mercoledì 22 agosto 2012

I nostri Soldati


I NOSTRI SOLDATI


Ormai siamo un po’ tutti abituati a vedere quelle divise che, nelle più solenni celebrazioni o nelle feste popolari, tra ali di folla incuriosita ed inorgoglita, sfilano con serietà e consapevolezza.

I primi tempi la gente era confusa, non riusciva proprio a capire, più che altro a credere, che al Sud addirittura c’era uno Stato con tanto di Esercito. Tempi duri, quando il solo esporre la Bandiera significava essere “generalizzati” dalle Forze dell’Ordine: figuriamoci sfilare in divisa ed armi. Non ne pariamo di sparare a salve.

Ora tutto è cambiato: la Gente sa bene a chi fanno riferimento quei Reparti, quelle Bandiere, quei colori, quei galloni. Eppure c’è chi ancora ironizza o chiama i nostri Soldati “figuranti”, per non parlare di quei poveri di spirito che si sbizzarriscono in sciocche battute al limite dell’idiozia più dettate dall’ignoranza che dalla cattiveria. 

I nostri Soldati non sono figuranti nella stessa misura che non sono dei soldati in armi. Così come un vessillo, un’icona, un fregio, una corona rappresentano qualcosa che va al di là del materiale di cui sono fatti, allo stesso modo i nostri Soldati sono la rappresentanza autentica e fedele di quei prodi che difesero fino all’ultimo respiro la Patria Napolitana.

Questo i nostri Soldati lo sanno benissimo e, nella consapevolezza che questo loro impegno è un elemento importantissimo nella dura battaglia per la diffusione della verità storica, impiegano tempo e risorse a non finire affinché ciò che rappresentano sia adeguatamente apprezzato e condiviso. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

E’ con questi sentimenti che diramiamo in Rete un articolo bellissimo dedicato ai nostri Soldati del Reparto “Milites Luci” di Potenza apparso sul periodico specializzato “STORIA IN RETE”, rivolgendo il nostro riconoscente pensiero anche ai reparti “Real Marina” della Sicilia ed a quelli “Esteri” da Cassino.



Cap. Alessandro Romano





(  per leggere cliccare sulle immagini  )  










martedì 21 agosto 2012

Il Risorgimento è razzismo antimeridionale





IL RAZZISMO ANTIMERIDIONALE
ALLE  RADICI  DELL’UNITÀ D’ITALIA

di

Ignazio  Coppola



La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud e la Sicilia. Infatti che non  grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così  scriveva: ” In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad  una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati” . Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “ Un paese che bisognerebbe distruggere  e gli abitanti mandarli in Africa a farsi  civili”. Ma,  ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del  re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: “Questa è Africa ! Altro che Italia.  I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “ Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “ non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire, poi, del generale Giuseppe Covone, anche lui mandato a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per  non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non  trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: ” Nessun metodo poteva  aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali, val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “ La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania, al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: ” Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice  piemontese, che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico  Ferri, Giusepe  Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. 

Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: ” La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci-  che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”.  

L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: ” Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. 

E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista, fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma, riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga, nel suo ” Il libro del riso e dell’oblio”, un pensiero che è assolutamente calzante con  quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “ Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato.” Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone,  D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi come Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo, propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali, teorizzando l’inferiorità della razza meridionale.  Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, fu  nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità  etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali, come razza superiore, e i meridionali di stirpe negroide africana, razza inferiore.  Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana,  Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato, nel gennaio del 1876, a Castiglione di Sicilia e, quindi, di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un  suo libro del 1898, “ L’Italia barbara contemporanea”, descriveva il Sud come una grande colonia che, una volta conquistata e sottomessa, era da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa- sostiene ancora Gramsci- in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi, nel corso degli anni, alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli tipo: ” vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. E ancora: “ non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. 

Come si può, alla luce di tutto questo, parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare, da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni, se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni, farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino, il 26 novembre 2009, è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie: quella del Nord, civile e progredita; quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e tramutare questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne in un luogo di rispetto e raccoglimento, insomma in un sacrario. In Italia, purtroppo, basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.








lunedì 20 agosto 2012

I futuri terremoti tutti meridionali




TRREMOTO
Popolazione carne da macello
di
Gianni Lannes


In attesa del prossimo evento tellurico naturale o provocato dalla silenziosa guerra ambientale scatenata in sordina dai governi dei macellai russi e nordamericani, lo Stato tricolore (controllato dall’eterodiretto Monti Mario) ha fatto i conti ma non li ha comunicati ai sudditi interessati. Un preannunciato esempio: i 400 mila abitanti di Catania (a rischio elevatissimo) si ridurranno a 50 mila unità quando si scatenerà quel terremoto che si paventa da tempo. Infatti, solo il 5 per cento delle abitazioni di questa città siciliana è a prova tellurica. C’è anche peggio nel profondo Sud: i centri storici di Messina e Reggio Calabria non sono adeguati al forte terremoto prossimo venturo: le istituzioni calcolano che solo un quarto delle abitazioni sia in grado di reggere un sisma violento. In attesa della prossima tragedia, i dati governativi attestano il rischio taciuto: 25 milioni di persone vivono in aree pericolose del Belpaese. Ufficialmente “il 45 per cento del territorio italiano è catalogato come sismico”. La situazione in realtà è più grave di quanto un comune cittadino può solo vagamente immaginare. Ma è preferibile non divulgare la notizia. Piani di sicurezza ed evacuazione? Obsoleti, sconosciuti alla popolazione o addirittura inesistenti. Avanti, prego con i prossimi funerali di Stato in pompa magna. Spente le telecamere al servizio diretto del potere, l’Emilia Romagna è già passata in secondo piano.

Zone rosse – Sono 2.965 i Comuni fragili su 8.102, dove per rischio sismico si intendono i danni che provocherebbe un futuro, eventuale terremoto in una certa regione, in rapporto con la probabilità che esso si verifichi in un certo lasso temporale e tenendo conto anche della densità di popolazione e della quantità ed il tipo delle abitazioni e delle strutture (ponti, strade, edifici pubblici) presenti. La situazione si aggrava se si considerano le abitazioni abusive in aree a rischio naturale e quelle in cui i proprietari hanno agito contro le regole e le leggi intaccando i muri maestri. Inoltre, il 65 per cento delle abitazioni civili dello Stivale è comunque poco sicuro anche al di fuori delle aree sismiche. L’Italia è attualmente al terzo posto a livello mondiale in termini di vittime da terremoti, preceduta soltanto da Cina e Giappone, e seguita da Iran e Turchia.

Ospedali pericolosi – 500 nosocomi a rischio in tutta la Penisola perché costruiti senza rispettare le norme antisismiche. In Italia il 28 per cento degli ospedali è stato edificato prima dell’inizio del secolo scorso. Il 70 per cento prima degli anni Sessanta. La mappa del pericolo ospedaliero – le strutture che più di tutte dovrebbero rimanere in piedi in caso di terremoti e calamità – è ancora oggi da far rabbrividire, nonostante il cattivo esempio dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila (parzialmente crollato nell’aprile 2009). La solita Italia insicura che non impara mai dalle sue tragedie. Basta fare un giro dal Nord al Sud, per accorgersene. Un intera ala del San Gerardo di Monza, ospedale di epoca umbertina, ha rischiato di crollare. Due piloni del reparto di nefrologia (con 670 pazienti in emodialisi) hanno cominciato a cedere a causa delle infiltrazioni di acqua. Mentre a Edolo in Valcamonica (provincia di Brescia) è crollato il soffitto del reparto di chirurgia. Diagnosi: distacco del solaio troppo vetusto, costruito oltre 20 anni fa e mai sottoposto ad alcuna manutenzione. Ovviamente non va meglio da Roma in giù. A Palermo ben 9 strutture sanitarie ufficialmente sono considerate a rischio. Alcuni padiglioni dell’ospedale E. Albanese presentano un indice di collasso tra lo 0,2 e lo 0,6. Sotto lo 0,1 la quota di resistenza del cemento analizzato dagli specialisti in almeno altre 5 strutture ospedaliere, più nove padiglioni dell’ospedale Piemonte di Messina. La Procura della Repubblica di Agrigento ha emesso 22 avvisi di garanzia per tecnici, progettisti e costruttori che hanno impastato le mani sull’ospedale San Giovanni di Dio (400 posti letto). L’ipotesi accusatoria della magistratura è che per la costruzione sia stato usato calcestruzzo depotenziato con un alta percentuale di sabbia e tondini non a norma.  L’ultima ispezione della Commissione d’inchiesta del Senato nell’anno 2008 evidenziò la Calabria come governata “dalla metodologia dell’inefficienza”. Ospedali vetusti, deficit strutturali. Edifici come l’Annunziata di Cosenza costruito negli anno ’30 del secolo scorso. Ed “estremo degrado a Palmi, Vibo, Scilla e Melito Porto Salvo”. Agli ospedali Riuniti di Reggio Calabria le opere strutturali per la ristrutturazione della sala parto erano state eseguite “senza adeguarsi alle norme di sicurezza”. E non poteva mancare addirittura l’ospedale sul vulcano. Quale? Il Vesuvio. Il nosocomio di Ponticelli (450 posti letto e 190 milioni di euro, il costo stimato nel 2004), costruito in totale spregio alle più elementari norme di sicurezza, ad 8 chilometri dal centro eruttivo (in ziona gialla a pericolosità differita, ossia da evacuare). Insomma, sia consentita l’ironia, tutte informazioni che tg e carta stampata trasmettono quotidianamente.

Appennino pugliese – Casalnuovo Monterotaro è purtroppo in provincia di Foggia (il più nefasto capoluogo d’Italia in termini di qualità della vita). Era il 31 ottobre 2002 quando anche qui la terra tremò forte. Sono trascorsi appena 12 anni da quando le abitazioni si afflosciarono, i calcinacci caddero e per miracolo non morì anima viva. Fu la stessa scossa che ammazzò i 27 bambini di San Giuliano e la loro maestra. La stessa scossa che portò lutto in Molise e tanto dolore. E qui ha lasciato spavento negli ostinati residenti. Ancora oggi poco meno del 30 per cento delle case di fascia A, quelle cioè che a Casalnuovo, Celenza, Carlantino, subirono tanti danni da risultare inagibili, si trovano ancora nella stessa situazione. Vuote e pericolanti.

Esempio borbonico - Cerreto Sannita è un paese in provincia di Benevento. La cittadina dell’Appennino meridionale è in realtà molto diversa dalle fondamenta da altri borghi del Mezzogiorno. L’impianto delle abitazioni civili e municipali marca la differenza rispetto agli altri centri abitati di una terra martoriata dai terremoti. Non a caso, le fondamenta sono costruite ad arte, i muri si allargano verso il basso per aumentarne la stabilità e sono ben spessi per renderli più resistenti con pietre angolari intagliate in un unico blocco di roccia. Le strade sono larghe ed il sistema fognario è efficiente e moderno. Un buon esempio di edilizia antisismica nel Meridione. Cerreto infatti, fu completamente ricostruita ad opera dei Borbone dopo un terremoto nel XVII secolo.