mercoledì 5 settembre 2012

Collodi antiborbonico e raccomandato



(Angiolo Tricca, Caricatura di Collodi, 1875)

Collodi, i Napoletani 
e una canzone napoletana


Perché nelle "Avventure di Pinocchio" l'Omino 
canta una parodia di "Te voglio bene assaje". 
Quando Collodi chiedeva a un politico napoletano un posto di lavoro.

di
Carmine Cimmino



La firma non c’è, ma per Daniela Marcheschi non ci sono dubbi. L’autore del “pezzo“ umoristico Il disordine a Napoli ossia i sette dormienti, pubblicato il 15 dicembre 1860 sul giornale satirico “Il Lampione“, è Carlo Lorenzini, Collodi, che a un personaggio troppo svelto di mano mette in bocca una parodia di Te voglio bene assaje: “La notte tutte dormono / E io che buo’ dormì, / pensando al portafolio me sento ascevolì…”. Merita una parentesi il verbo ascevulì, che il toscanissimo Collodi trascriveva correttamente, e che qualche giorno fa un cantante, anzi un gridatore, napoletano ha storpiato in un volgare scemonì. Sono gli aspetti tristi delle “serate“ estive nei luoghi di mare.
“Ascevolì“ scrisse Raffaele Sacco: indebolirsi, venir meno. Un venir meno consapevole, con una nota di stupore misto a paura. Da “scaevus” “scevolus”: in latino “sinistro“, con tutto il corredo di accezioni che il concetto portava, e ancora porta, con sé. Anche in “Minuzzolo“ Collodi immagina che l’organino di Barberia di Nespolino suoni la canzone di Sacco e, forse, di Donizetti. Nel cap. XXXI delle “Avventure di Pinocchio“ il burattino e Lucignolo si trovano a bordo di un carro che li porta verso il “Paese dei balocchi“. L’Omino “seduto a cassetta, canterella tra i denti“ la versione libera e parodistica di un passaggio della canzone: Tutti la notte dormono / e io non dormo mai... Attraverso il gioco della parodia che Collodi conduce con magistrale finezza l’insonnia dell’innamorato infelice di Te voglio bene assaje si rovescia, anche qui, come nell’articolo del 1860, nell’immagine della lucida veglia di un personaggio ambiguo e pericoloso.
Nel 1886 Collodi pubblica la terza parte del “Viaggio di Giannettino“, dedicata all’Italia meridionale. Le pagine su Napoli sono un misto di luoghi comuni, di notizie tratte da Renato Fucini e da De Bourcard, ma anche di spunti originali. Napoli è una città caotica, per le strade si intrecciano ogni momento le manovre audaci delle carrozze, perché “qui c’è l’usanza di passeggiare, correndo“. Napoli, descritta da Collodi attraverso gli occhi di un ragazzo, è un teatro in cui la vista e l’udito dello spettatore non trovano requie: oggetti e persone si muovono senza sosta, e venditori di strada gridano i nomi e le qualità della loro merce, e i clienti rispondono gridando. Il gridare è totale, continuo, incomprensibile. In bocca ai napoletani le vocali “o“ e “u” “prima salgono a galla e poi si rituffano“: in genere essi pronunciano “forte, di ogni parola, una sola sillaba, il resto lo lasciano cascare dalla bocca“ e lo sostituiscono con il gesto.
Ma Collodi, amico di Signorini, di Tricca e di Fattori, dispiega tutta la ricchezza del suo lessico nella descrizione dei colori di Napoli: il contrasto tra la luce vermiglia e l’ombra mobile e viva, il giallo dei limoni, il rosso delle arance e del liquido nelle “bocce“ dei venditori di sciroppi, il blu del mare che qui sfuma in molti toni d’azzurro e lì si stempera in delicate variazioni di celeste. Ma bisogna guardarsi dai sigari di Napoli: perché in essi si può trovare di tutto, soprattutto capelli. Collodi, buongustaio della pasta, esalta il “maccaronaro“, che lavora “all’aria aperta, al cospetto del sole“, e soprattutto di una folla di “mangiatori“ in trepida attesa: i gesti del “maccaronaro“ sono quelli di un “ capo d’orchestra “ davanti al pubblico. La pizza non ispira lo scrittore toscano: non aveva ispirato nemmeno Fucini.
Collodi non apprezza né i Borbone né alcuni liberali napoletani amici di Cavour. Barbablù, ricorda la Marcheschi, è il soprannome che i giornali satirici con cui Collodi collabora “affibbiano“ al ministro napoletano Silvio Spaventa, “orco dei lavori pubblici“, “uomo antropofago“ che vive “mangiando Torinesi“. Questa accusa di “mangiar Torinesi“ mi pare che sia una giusta punizione inflitta dall’ironia della storia a un intellettuale che nulla vide e nulla disse mentre i Torinesi e i loro soci si mangiavano la “sua“ Napoli e il Sud, saccheggiavano tesori pubblici e privati, fabbriche e arsenali, e incendiavano, e ammazzavano. Il nome di Spaventa metteva Collodi di fronte alla coscienza della colpa e della vergogna. Poiché quel nome gli ricordava, implacabile, che anche lui, il maestro della satira, il giornalista che usava la parola come uno scudiscio, il demolitore della classe dirigente dell’Italia unita si era piegato alla pratica della raccomandazione.
Il 24 gennaio 1860 il fratello Paolo, direttore della Manifattura delle Porcellane dei Ginori, prega il marchese Lorenzo Ginori di aiutare Carlo a trovare un impiego. Il marchese lo raccomanda al barone Ricasoli: “Carlo Lorenzini è uno scrittore di qualche merito“. Un mese dopo Collodi riceve dal Governo di Toscana la nomina a Commesso Aggregato nella Commissione di Censura. Ma non è soddisfatto. Si aspettava un ufficio più importante e uno stipendio più sostanzioso. Tre anni dopo, il 6 febbraio del 1863, egli scrive una lunga lettera al marchese Ginori, diventato intanto “deputato per Firenze“: chiede di essere aiutato a ottenere “il trasloco in altro dipartimento“. “Sono l’unico impiegato in Toscana che dal 1860 in poi non abbia fatto un solo scalino nella via degli impieghi governativi…. Ho scritto ieri una lettera al Segretario Spaventa, mio buon amico da qualche anno, nella quale lo prego a volermi dire in tutta franchezza se posso avere qualche probabilità di veder migliorate le mie condizioni.”.
Nel 1864, grazie ai maneggi di Silvio Spaventa, Carlo Lorenzini Collodi è nominato segretario di II classe della Prefettura di Firenze. Con un “mensile“, notevole, di lire 200. 
Se mi chiedessero un elenco dei dieci “dettagli“ che diano, in modo concreto, esauriente e sintetico l’idea di come fu fatta e cosa fu l’unità d’Italia, metterei al terzo posto questa storia: Collodi, un Maestro della satira – la satira è, per statuto logico e per principio naturale, ostile al potere, soprattutto al potere delle istituzioni -, che diventa segretario di Prefettura, e cioè del centro reale e simbolico del potere delle istituzioni.


Fonte: ilmediano.it
Categoria: La Storia magra
01/09/2012